"Cercatore di morte" Racconto pubblicato su AA.VV, Racconti dal veneto, Historica, 2020


 

CERCATORE DI MORTE

di Stefano Zampieri

 

 

 Nessuno può immaginare quanta gente frequenti regolarmente questo posto, gente che qui si sente a casa, perché ci trova i propri cari, perché ha confidenza con la morte, perché ne ha bisogno, come ognuno di noi necessita della propria storia. Gente che si compiace di stare fra le lapidi e i fiori, che gode dello scalpiccio delle suole sul ghiaino dei sentieri, che s’affanna a lucidare le vecchie foto ormai consumate, a rendere umano tutto il disumano del destino. Certo c’è anche chi non frequenta volentieri il cimitero, ma quelli si vedono poco, stando qui sembra di avere a che fare con un’umanità felice, guidata dall’energia degli amorosi sensi. Da questa prospettiva pare che tra il mondo dei vivi e quello dei morti,  non ci sia affatto un’interruzione, che siano qui uno accanto all’altro senza problemi.

Ma c’è un momento che pochi conoscono, quando cala la sera, e poi la notte, e qui il luogo si svuota di visitatori, non resta più nessuno, soltanto io, a fare da guardiano, che nessuno entri, che nessuno esca. Eppure sono proprio questi i momenti più belli. Quando le ombre imbrogliano le prospettive e i lumini si fanno segnali dispersi di sopravvivenza.

Io qui non posso fare entrare nessuno, è il mio lavoro, eppure lo confesso, mi capita talvolta, raramente intendiamoci, ma è capitato, che qualcuno lo abbia lasciato passare. Certo, quando vedo che si tratta di ladri, allora chiamo la forza pubblica e il problema è risolto, ma nessuno può immaginare che ci sia qualcuno che entra qui dentro di notte per il semplice gusto di stare solo tra i morti, di sentire quest’aria che si respira di un altro mondo. E allora, quando capisco che quello che cerca di entrare non lo fa per portarsi via qualche suppellettile o per fare qualche stupido danno, quando capisco che lo fa solo per sentire e vedere quel mondo che di solito non riusciamo a vedere e sentire, allora lascio che entri, e lo seguo da lontano, lo osservo attentamente, senza farmi vedere. Mi piace osservare le persone sbiancate dalla luce della luna, oscurate dalle ombre della notte, impegnate seriamente a percepire qualcosa, quella cosa che si può sentire solo qui.

Proprio così è accaduto una notte, era fine agosto, una notte già fresca di fine estate. Lui entrò con il volto magro, pallido, teso, era giovane, anche troppo per entrare qui dentro. Ma pareva deciso e consapevole di quello che stava facendo. Lo lasciai entrare e come al solito lo seguii senza farmi vedere. Il ragazzo girò un bel pezzo per i sentieri tra le tombe, fermandosi ogni tanto a leggere i nomi sulle lapidi.

C’era solo una striscia di luna quella notte, che spandeva un modesto chiarore giallognolo, non era facile orientarsi, il ragazzo finì nella parte più vecchia del cimitero, nel campo Greco, la sensazione era che cercasse qualcuno in particolare, anche se in quel luogo “cercare qualcuno” ha un significato un po’ strano. Il giovane, dunque, girò lungamente, si sedette ora qui, ora lì, come a pensare, come ad aspettare, come ad ascoltare. Le punte alte dei cipressi si stagliavano nel cielo.

Seguì la mura che circonda il campo e si allunga come un denso oscuro confine tra la terra, il cielo e la laguna.

Poi un’ombra si sollevò dietro a lui. E lui se ne accorse e si girò. Non so bene perché, ma in quel momento avevo la netta sensazione di udire in lontananza una cascata di note, come di un’arpa che disegnasse un fraseggio ripetuto, come nell’Orpheus di Igor Stravinskij. Ma forse era soltanto una mia suggestione. O forse no.

Il ragazzo si alzò in piedi per niente intimidito, stette fermo un attimo, poi si sedette come a voler dire «Bene, adesso parliamo». L’ombra restò lì, alta e magra, sottile quasi senza spessore. «Chi sei tu? Sei forse un cercatore di morte?» Il ragazzo disse «sì sono io, sono un cercatore di morte. La sto cercando, so che la troverò.»

L’ombra si prese un attimo per riflettere. «Non devi cercarla, la morte, ti trova lei. Ti trova sempre.»

«Lo so.  Ma voi Maestro la conoscete.»

«La conosco certo, mi ha trovato, ma dopo molti anni, per tanto tempo mi ha ignorato e io ho potuto vivere tutta la mia bella vita, e amare donne stupende, avere dei figli, conoscere grandi città, e mondi diversi. E poi creare, creare. Creare per sempre. Quando mi ha trovato il più era fatto, mi restava solo di andare.»

«E così avete fatto.»

»E così ho fatto. Ma tu ragazzo, perché cerchi colei che non ti vuol trovare?»

«Non lo so» sussurrò il giovane, «non c’è più niente che valga la pena, non vale la pena vivere.»

«Cosa mai ti sarà accaduto che ti spinge a dire simili enormità?»

«Credetemi, ho le mie buone ragioni.» Il ragazzo chinò il capo.

«C’è forse di mezzo una donna?»

«Perché lo chiedete?»

«Perché alla tua età è naturale che vi sia di mezzo una donna.»

«È così infatti» ammise sconsolato il ragazzo.

«Non dovete giustificarvi, non c’è dolore più grande, io lo so bene, la mia prima amatissima moglie morì di tubercolosi dopo più di trent’anni di matrimonio e quattro figli. Avevamo vissuto sempre insieme, ci amavamo già da bambini, eravamo cugini, cresciuti insieme. Puoi immaginare il dolore che provai alla sua morte.»

«Ecco, Maestro, lei può comprendere allora perché sto cercando la morte perché le vado incontro, ora che la donna della mia vita mi ha lasciato non ha più senso vivere. È come se fossi già morto.»

«Ma sei vivo, ed è questo che conta. Il dolore è dei vivi. I morti non soffrono.»

«Ma se il dolore è troppo grande…»

«Credimi, nessun dolore è troppo grande, perché c’è sempre un dolore più grande.»

«Ma io non posso vivere senza di lei.»

«Sono belle frasi, che si dicono, le dicevamo anche noi ai nostri tempi, anzi, certo le dicevamo più di voi giovani d’oggi.»

«Allora potete capirle» disse il giovane a bassa voce, quasi vergognandosi.

«Posso capirle, ma capisco che non hanno alcun significato. L’amore è tutto, in un momento, ma poi viene sempre un altro momento, dopo.»

«Ma che senso ha?»

«Il senso della vita, ragazzo mio» dichiarò sentenzioso il Maestro.

«Non capisco.»

«La vita sono questi momenti che si succedono uno dopo l’altro, e ognuno è tutto. E poi ognuno è superato dal successivo, tante volte, tutto, tutto, tutto…»

«E in mezzo, fra un istante e l’altro? »

«Fra un istante e l’altro c’è lo spazio per creare. Io l’ho fatto tutta la vita, ininterrottamente, passando da una forma all’altra, senza paura di venire meno a qualche regola, la mia regola è stata: segui la tua regola. Anche quando è quella degli altri. La senti adesso questa musica? L’ombra sollevò il dito magrissimo nell’aria, il ragazzo prestò orecchio. Quando la scrissi mi sentivo preso tra un momento e l’altro, stritolato, tutto, tutto, tutto… e io tra un momento e l’altro cercavo la voce di Orfeo.»

«Segui la tua regola? Cosa significa, Maestro?»

«Io scrivevo grandi opere, e piccole, talvolta solo paginette, altre volte mostri pieni di strumenti e volumi di spartiti. Mi hanno criticato molto per questo, come se fossi poco coerente. Ma coerente a cosa? A chi? Alla mia regola certo, a quella sono sempre stato coerente, ogni volta.»

«Lo so Maestro, ma voi avevate il talento, il genio» disse il ragazzo sconsolato. « Io non so fare nulla.»

«Quale genio, quale talento! Non è questo che conta davvero. Credimi. Anche qui vale la stessa regola: segui la tua regola. La tua opera sia tua, prima di tutto.»

«Ma io no so fare niente» ripeté sconsolato il giovane.

«Vivere è la prima di tutte le opere, e tutti sanno vivere. Ognuno a suo modo.»

«Se sapessi creare come voi, Maestro, avrei una ragione per vivere, ma io…»

«No, no, ragazzo, allora non hai capito, tutto quello che ho creato nella mia vita non era altro che immagini di uno specchio e sulla superficie dello specchio c’era appunto la mia vita. Il creatore, il poeta, l’artista, non fa altro che dire se stesso, si racconta, si rappresenta, magari meglio, si offre. Costruisce la sua vita così, vivere è creare, e quando crei non puoi che mostrarti. Sei il testimone di te stesso. Sempre.»

«E allora se non si crea niente?»

«Ma non è possibile, magari non sai disegnare, non sai comporre. Ma che importa, quelli sono solo linguaggi, forme, io non conoscevo né il cinese, né l’arabo e ho vissuto bene lo stesso. Perché ho vissuto.»

«E io allora, cosa posso fare?

«Tu devi vivere, appunto, è questa l’opera che devi costruire pian piano. La tua opera.»

«La mia opera?» Il ragazzo sembrava stupito più che convinto. 

«Certo. E poi, non temere, un giorno la morte ti troverà, ci trova sempre tutti. Quando è il momento.»

Il ragazzo tacque. L’ombra del Maestro si eclissò e si perse nell’oscurità.

Ma il ragazzo non la cercò, lasciò che se ne andasse. Perché in fondo quel che c’era da dire  forse era stato detto.

 

 

Vidi che s’alzava e si dirigeva all’uscita. I passi lenti scricchiolavano sui sassolini, un taglio di luna illuminava appena i cipressi, ancora lì, immobili spettatori.

Dietro a me sentii la presenza di un’ombra, che per la mia lunga frequentazione del posto non ebbi difficoltà a riconoscere. Appoggiata di spalle a una tomba strana a forma di cupoletta, dentro la quale s’intravedeva nell’oscurità della notte una montagnola di scarpette da ballerina.

«Maestro Djagilev dissi, «ha sentito che belle parole.» L’ombra si mise a ridere sonoramente. Il vecchio Igor parla bene, ma lui era un genio, un vero genio, lo so bene io che ho trasformato tante sue opere in teatro. Ma non c’è mai stato nessuno capace di spiegare il mistero di certi suoni, e la vertigine di certi ritmi, e il colore indescrivibile di certi impasti, no, non si può spiegare perché un accordo ci fa tremare il sangue, e un altro ci fa sciogliere come neve al sole. C’è chi conosce il segreto e chi non lo comprenderà mai.»

«Eppureп osservai, «il Maestro ha cercato di consolare il giovane cercatore di morte, quasi suggerendogli che tutti possono realizzare la propria opera semplicemente vivendo.»

«Mentiva» replicò il fondatore dei Balletti Russi, «sì certo ognuno di noi ha il compito di realizzare la propria vita, ma le vite non sono esattamente tutte uguali.»

«E come si fa a comprenderlo?» chiesi io un po’ deluso.

«C’è un solo modo» rispose, Яma non è quello che vorresti.»

«Ovvero?»

«Lo saprai solo dopo. Lo sanno le ombre. Perché solo le ombre sono esistenze divenute opere. Il resto è nel vento che non si ferma e non ha consistenza.»

«È così» intervenne un bell’uomo con una vistosa barba bianca, ritto in piedi sopra un lucido marmo nero.  «È proprio così, ma non vuol dire che solo alcuni fortunati possono vivere il loro talento. No, non vuol dire questo.»

«Maestro Vedova» dissi io, «cosa intende dire?»

«Dico che è tutta e solo una questione di luci e di ombre, le luci e le ombre che abbiamo dentro, tutti, ma proprio tutti, ma chi sa farle venir fuori? Chi le sa vedere? Le luci e le ombre della vita che poi sono le stesse luci e le stesse ombre che ci sono qui dentro, fra queste tombe e questi alberi, e che ci sono lì fuori sulle acqua della laguna, fra le isole di Venezia. Li hai visti i riflessi della luna sull’acqua stasera?»

Osservai il suo camicione scuro tutto sporco di vernice bianca e nera. E provai a capire le sue parole. Pensai che forse erano proprio quelle luci e quelle ombre ciò che il ragazzo stava cercando.

Ma ormai se n’era andato. Chissà se le saprà mai trovare... Mi allontanai. Controllai che il cancello del cimitero fosse ben chiuso.

Una leggera brezza soffiava e una intera distesa d’acqua mi circondava.

 

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