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Prigionieri della libertà
Stefano Zampieri
Prigionieri della libertà
Romanzo
Potere e sofferenza, oppressione e
libertà, ragionevolezza e assurdità, è tra simili estremi che si svolge
la storia di questo romanzo nella forma dell'apologo disincantato,
ironico e drammatico insieme. La storia di un prigioniero e di un mondo
(il nostro?) ove la ragione è oppressa e il potere ha ormai perso ogni
limite di buon senso. Un mondo tragicamente senza via d'uscita (il
nostro?).
Memore di tanti modelli letterari,
da Kafka a Saramago, da Savinio a Koestler, l'autore mette in scena una
scrittura riflessiva ed eversiva, per dare vita a un romanzo insieme
filosofico, politico ed esistenziale.
Incipit
***
Mi rendo conto che questa situazione deve aver fine. Deve per forza.
Per la forza stessa del destino che mi ha trascinato, un giorno, fra le
mura di questa prigione. Ma io non posso accettare di restare chiuso qui
dentro. Uscirò, me ne andrò. Libero o morto. Tertium non datur. Ho
cominciato, fin dal primo momento, a valutare le azioni che avrebbero
potuto portarmi fuori di qui. Fin dal primo momento. È così. So che posso
agire, e qualcosa dentro di me dice che devo farlo. Non avrò mai la forza
di accettare la mia condanna. Non è attraverso di essa che si manifesta la
mia ragione, non in essa potrò ottenere, socraticamente, la mia vittoria.
Per questo non l’accetterò. E non berrò così serenamente la loro cicuta.
Cosa farò, allora? Questo è ancora da stabilire. Ma il dettaglio si
fisserà poco per volta. Non avrò mai il coraggio, la certezza, la grazia
di essere un Cristo in croce. Non ho la vocazione del martire, né
l’illuminazione del santo. Quel che sono è quel che faccio. E la mia
umanità è qui con me tutta intera. Con tutta la forza possibile, e tutta
la debolezza. Certo è paradossale che prima ancora di spiegare la mia
situazione, io sia qui intento a disfarla. Ma,d’altra parte, nulla più che
un desiderio, un’intenzione, un’ipotesi. Non mi è concesso altro in questa
situazione. Non sono esattamente io quello che può decidere. Eppure, il
sentimento è chiaro. Il mio rifiuto, intimamente dentro di me (anche
perché non ho e non avrò molte occasioni per esternare i miei sentimenti),
resta chiuso e solido come una roccia. Se qualcuno condannandomi a questa
pena sperava di cambiarmi, di farmi mutare, di farmi accettare qual
che rifiuto, ebbene si è sbagliato. Posso dirlo già ora e a voce ben
ferma. Non cambierò idea, non cambierò io stesso. E se ne avrò l’occasione
fuggirò di qui, senza guardare in faccia nessuno. Non mi avrete. Si dice
così, vero?
Bene, molto bene. Per iniziare era necessario dare una prova adeguata di
presunzione. Una pagina che si doveva scrivere. Poi si torna ad essere
quelli di sempre. Ma l’onore è salvo.
***
Sono prigioniero. Come soffro nel momento in cui dico queste parole,
solo semplicemente dicendole. Basta dirle, cioè, per replicare
infinitamente quella sofferenza e renderla eterna. Eppure è così, sono
prigioniero. Tutto il resto dipende dalla storia, dagli eventi, dai
conflitti, dagli uomini e dai difetti degli uomini, o dai loro
pregi. Dalle mie ostinazioni, dalle mie ragioni (dai miei torti). Dai
torti (dalle ragioni) degli altri. Tutto bene, ma non è questo.
Sono prigioniero: è sufficiente questa affermazione per dire qualcosa di
definitivo che non posso mutare facilmente (che non posso mutare tout
court?). Affermazione che è anche, insieme, descrizione di una realtà.
Realtà che ricorda quella di un monumento che si mantiene immobile nel
tempo, sotto la pioggia e sotto il sole, mentre il mondo tutt’intorno
cambia. Tu sei qui e fuori impazza la vita, uomini e donne e bambini e
giovani e vecchi vivono il loro tempo, incrociano le loro fatiche,
confondono le loro gioie, seguono reciprocamente i loro movimenti,
diventano ognuno la propria vita e tutti insieme una Storia, e perfino una
civiltà. Mentre io, qui dentro, tengo salde le pareti della mia cella con
lo sguardo attonito del prigioniero, perché non mi crollino addosso.
E sconto tutta intera la mia pena.
[...]
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