DISTOPIA QUOTIDIANA: La fabbrica dei figli senza nome
In una ampia sala dell'Hotel Venezia di Kiev un bimbo dentro la sua culla si mise a piangere, nel giro di pochi istanti piangevano tutti e quarantasei bambini, in un concerto di urla e lacrime che le ragazze della nurserie non riuscivano a fermare. Julia arrivò di corsa e si precipitò sulla culla del n.23, afferrò il bambino senza nome, un maschietto di quattro chili e lo strinse al seno. Il piccolo avvolto dal calore e dall'odore della madre si calmò immediatamente.
Julia era la madre di un bambino senza nome, eppure non era sua madre. Quel piccolo per Julia fuggita da una guerra dimenticata del Dombass, rappresentava la salvezza, quattordici mila dollari che le avrebbero consentito di ricostruire una vita da qualche parte, magari emigrando a Ovest, a fare la badante di qualche vecchietto.
Il piccolo senza nome muoveva le manine, cercava il seno di Julia, per lui la madre era quel seno, quell'odore, quel contatto. Ma per la legge era proprietà di una coppia spagnola, due bravi cristiani, Julia aveva preteso che nel contratto fosse specificato. Ma il piccolo era nato, era lì, e i genitori acquirenti non potevano venirselo a prendere, perchè il Covid 19 aveva bloccato tutte le frontiere. E la coppia, non potendo prendersi immediatamente ciò che aveva pagato in anticipo e quindi le apparteneva, aveva bloccato il contratto in attesa di conoscere gli sviluppi della situazione, e così per tutti e quarantanove i bambini senza nome e senza famiglia dell'Hotel Venezia di Kiev. Nati da madri surrogate come Julia per via di una legislazione tollerante, e poi cancellati da un virus che aveva fermato il mondo. Un'intera industria della procreazione a pagamento frenata dalla crisi. Ma che ne sarà stato dei quarantanove bambini senza nome?
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